Si chiama ‘La Banalità della Bellezza’, è una serie di fotografie scattate da Arianna Lerussi, è un gioco ipnotico, è solo una delle sue produzioni. L’abbiamo scelta come esempio perché ci racconta tanto della fotografia artistica.
De Gregori diceva che la differenza fra bufalo e locomotiva era tutta nel fatto che il bufalo può scartare di lato, può cambiare strada, può sorprendere chi lo osserva. Arianna sembra che inquadri una cosa e se fossi lì con lei mentre scatta, vedresti la cosa, la persona, il dettaglio che ha preso di mira. E poi vedresti una foto e dentro ci sarebbe un’altra cosa, che avrebbe potuto essere dovunque nel mondo.
Arianna porta il senso di ciò che vede (e vediamo) da un’altra parte, in un mondo meta meta dove magari c’è ancora un po’ di senso primordiale capace di dare un ordine ai pensieri, anche minimo, un mondo di aria e pensieri che però affonda le radici nella fisicità dei corpi e degli oggetti, mantiene la loro identità senza costringerli a snaturarsi, li mostra semplicemente guardandoli da un’altra parte.
La cosa davvero bella è che, nel suo mondo assai più in là dell’ovvio, Arianna ti porta con estrema semplicità: nei tanti strati di senso di ogni foto si cammina bene, senza inciampi, si rincorrono i significati per vedere di nascosto l’effetto che fa, in un gioco in cui ciascuno mescola il suo presente, il suo passato e il suo futuro. Questa volta niente domande ma alcune parole, gettate sul foglio come se fossero oggetti di cui rivelare il possibile spessore: vediamo Arianna dove ci porta.
Ritratto
“Il ritratto ha un valore complesso e primigenio che mi ha sempre affascinato. Fin dai suoi esordi in pittura, ancor prima della fotografia, serviva a fermare qualcuno nel tempo, a farlo diventare immortale, a farlo vivere per sempre. Susan Sontag diceva che fotografare una persona significa trasformarla in oggetto che può essere simbolicamente posseduto. Ogni ritratto è un’icona. Quando penso al ritratto fotografico non posso fare a meno di considerare la sua valenza sentimentale: avere una fotografia di qualcuno è un modo di tenere quella persona con noi, è un modo per non perderla”.
Casa
“La maggior parte dei ritratti che ho scattato tra il 2009 e il 2011 sono raccolti in una serie che ho intitolato “True Home”. Casa è una parola importante per me e non stento a credere che continuerò ad interrogarmi su cosa questa parola significa. Quando ho scelto quel titolo era sera tardi e facevo il conto delle case che ho cambiato, in cui ho vissuto finora: tredici. E mentre cercavo di dare un senso alla mia sensazione di estraneità con i diversi luoghi, le tante stanze in cui ho dormito, mi è venuto un pensiero che ancora oggi mi consola: la “vera casa” la si può costruire solo dentro qualcuno”.
Progetto
“La parola progetto mi è un po’ antipatica. Mi sembra pretenziosa e mi ha sempre fatto un po’ di paura. Quando parlo di fotografia o delle cose che faccio preferisco usare la parola idea. Mi vengono delle idee, dei pensieri che non sempre riesco mettere in fila. A volte rimangono sensazioni, come quando sogni e non ti ricordi, ma il giorno dopo ti ritrovi a pensare: “ ma io non sono mai stata lì. Devo averlo sognato”. Ed è bello poter andare ovunque. Anche se in realtà non ci si va affatto”.
Malinconia
“La malinconia racchiude in sé uno dei più grandi paradossi: la gioia di sentirsi tristi. Si potrebbe definire come un desiderio impossibile, qualcosa che non si ha mai avuto ma di cui si sente dolorosamente la mancanza. Com’è possibile? Eppure. La malinconia non è negativa come molti credono, è più che altro un sentimento “scomodo” perché induce ad entrare in contatto con la propria interiorità. La fotografia è l’oggetto malinconico per eccellenza. Ti rende felice perché ha la potenza di riportarti ad un momento, ad una sensazione che non c’è più e allo stesso tempo ti rende triste per la stessa identica motivazione”.
Bellezza
“Quando sono triste penso ai fiori. C’è come un’idea puramente romantica che mi fa credere che tutti questi alberi mi conoscono bene perché mi hanno vista nascere. Che questo mare è lo stesso che guardavano gli antichi. Che tutta questa bellezza c’era prima che io esistessi e mi sopravviverà. Mi viene in mente quella frase di Nabokov, quando diceva di essere felice di stare al mondo per osservare, spiare, se stesso e gli altri perché ciascun uomo è avvincente. Io la penso un po’ come lui e cerco di guardare il più possibile, di riempirmi di tutto. È questa la bellezza, credo”.
Arancione
“È molto buffo per me dover scrivere qualcosa a proposito dell’arancione. Ho una immotivata, irrazionale e pungente ostilità nei confronti del colore arancione. Quando ho un po’ di confidenza con una persona lo confesso. E tutti a dirmi: “ Ma come? E’ una tonalità vibrante, richiama l’allegria” E finisce che la gente comincia a guardarmi strano e l’imbarazzo prende piede e il più coraggioso del gruppo si lascia sfuggire “ quanto sei stramba…” e io sorrido e dico “Sì”. Sono stramba. Odio l’arancione”.