Parafrasando la canzone di Vasco, si può dire che in questi ultimi giorni la mia esperienza nel ciclismo sia stata toccata dall’incontro, più o meno fortunato, con i due estremi. Sì perché signori si nasce, anche in bicicletta.
Aneddoto numero uno: sfrecciavo con la consueta gioia sul Naviglio Grande in pausa pranzo ed ecco che poco dopo Corsico un sibilo acuto e ancora a me ignoto attraversa il timpano. Lasciandomi a pensare che da qualche parte c’é uno strano insetto che mi ronza intorno. Il bello è che neppure per un istante ho pensato di aver forato. Del resto, mai successo in vita mia! Bene. Così è stato sorprendente iniziare a percepire sul fondoschiena le granulosità dell’asfalto. Accidenti… che abbia forato? Gli occhi vanno al pignone ed ecco l’inesorabile realtà: gomma completamente a terra. Il pensiero corre alle tante volte in cui ho rimandato l’acquisto di copertoni di ricambio, bomboletta d’aria compressa e le famigerate levette che al corso di meccanica in ciclofficina ero consapevole, dopo solo pochi istanti di prova, che mai nella vita, da sola, ce l’avrei fatta a togliere un copertone dal cerchione. E tanto meno rimetterlo. Un po’ come la lezione sul movimento centrale… troppo difficile!
Così, rassegnata alla mia potenziale inettitudine, avevo sempre visto nella foratura un ineluttabile segno del destino. Quando capiterà… inshallah.
Fatti pochi sconsolati passi verso la lontana (circa 8 km) meta dell’ufficio, in zona Tortona, mi figuro già i tempi: 3 ore? 4? Con le tacchette poi… e reggerà la carica dell’iPhone?
Ma non faccio in tempo ad analizzare poco lucidamente tutta la situazione che ecco affiancarsi a me uno di quei tipici angeli quotidiani. Cioè quelle persone normalissime, dotate di una buona e sana dose di senso civico, che sanno come mettere a frutto le loro spontanee doti samaritane. Arriva sulla sua bella bici da corsa, tutta in carbonio (accidenti, non ricordo la marca) che pare uscito da un film, il signor Umberto B.
Non faccio in tempo a finire il verbo “ho forat…” in risposta al suo gentile interessamento che è già fermo accanto a me e mi offre aiuto, camera d’aria di scorta e persino la possibilità di montarla e gonfiarla insieme!
Sembra quasi infastidito dai miei primi increduli “grazie”. È cosa normalissima aiutarsi fra ciclisti, ci mancherebbe.
Ci mettiamo all’opera ed è subito tutto molto divertente. Umberto mi racconta della sua predilezione per le salite, del fatto che ha iniziato, come me, dalla mountain bike, della casa in montagna in Valle d’Aosta e dei giri che ama fare nella zona Sud di Milano che, anche senza salite, ancora per me nasconde mete leggendarie e inesplorate, come Panperduto, all’imbocco del canale Villoresi.
Intanto, con la naturalezza dell’esperienza, tutto procede. Ed io non riesco neppure a metter mano alla micro-pompa tascabile di Umberto che già é a metà gonfiatura della camera d’aria. E qui accade l’imponderabile… Inshallah. Un buon tratto di copertone è uscito dalla sua sede e… ci tocca sgonfiare e reinfilare il lembo sfuggito.
Ma la camera d’aria, ahinoi, sembra ora inesorabilmente non reggere più. Umberto prova e riprova ma niente da fare. Camera d’aria probabilmente danneggiata.
Insomma mi toccava proprio. Ma il grazie al deluso Umberto vale quindi doppio. Perché senza la gratificazione del risultato l’aiuto ricevuto deve essere sostenuto doppiamente. Così ci congediamo e, siccome il mio destino non era quello di tornare a casa a piedi, scopro che la mia socia aveva già risposto al messaggino d’avviso (ho forato, non aspettarmi per pranzo) con un bella proposta: oggi ho la Jeep! Ti vengo a prendere!
Aneddoto numero due: dopo i buoni ecco i cattivi. Domenica scorsa in pista al Velodromo Parco Nord c’è un po’ di traffico. Si è creato un mega gruppo al quale è difficile sfuggire, anche perché va alla mia velocità media, circa 30 km/h.
Mi metto in coda allora, tenendo un po’ di distanza di sicurezza come piace a me. Avrò più aria, ma tanto è solo per guadagnare un po’ in velocità, poi mi stacco.
Dopo poco sento che qualcuno si è accodato a me. E non è una presenza rilassata e serena. Ne percepisco a distanza l’ansia della prestazione. Uff… mi dico. Ecco il solito spaccone. Anzi, il “machista”, come dice la mia amica Claudia. Eppure era di pochi giorni prima la mia strenua difesa del ciclista-gentiluomo, mentre lei, reduce dal percorso del Sellaronda, mi aveva messo in guardia dallo spiacevole fenomeno del maschio Beta – quello frustrato, non Alfa – su due ruote.
Sono in gran forma e non faccio minima fatica a tenere il passo, ma c’è un po’ di confusione davanti. Un ragazzo sembra voler rientrare poco più avanti a me e così, insieme al mio diretto vicino a cui sto a ruota, lasciamo a tratti scorrere la catena. E dietro sento: “dai su… forza!”. Ma non è un incoraggiamento. Suona spiacevole nel tono come il clacson di chi al semaforo dietro di te non ha neppure la pazienza di aspettare il movimento del piede sull’acceleratore.
Rispondo: “un attimo! non vedi che c’è uno che vuole rientrare?”
Lasciamo perdere…
Faccio qualche giro e dietro sempre la scomoda presenza, tipo poltergeist, in agguato alle spalle. Non me ne curo più di tanto. Sento di avere tanta energia e in un momento di sfaldamento del gruppo e riassortimento delle posizioni decido di staccarmi e passare dall’interno. Vado alla grande! Bello scattare!
Sono lì, con il muscolo bello pronto e reattivo, in piena e soddisfacente progressione, mentre sto mentalmente facendo il calcolo dello spazio in cui infilarmi, che improvvisamente alle mie spalle sento un inopportuno: “se non ce la fai spostati a destra!”
Cioè… esattamente come aprire il forno quando la torta di sta gonfiando bella e uniforme. Come ricevere uno sgambetto all’inizio dei cento metri. Come una porta in faccia.
Inizio a rispondere “ma guarda che ce la sto facendo benissimo…” che già mi accorgo che il simpatico personaggio mi ha fatto perdere fiato e concentrazione in un solo colpo. E al termine di quella breve frase mi scatta quindi una rabbia incontenibile da farmi aggiungere un epiteto molto poco educato, anche se, con il senno di poi, si rivelerà davvero centrato: “…co*#%@..ne!”
Appena finisco le sillabe, ed è un tipo di parola che ti da tutto il tempo per pentirti nel mentre la pronunci, sono già appunto dispiaciuta per l’ira sfuggita di bocca, ma mi è scappato, non c’era più niente da fare.
Forse, fossi riuscita a sprigionare i watt che avevo in corpo, avrei potuto riprenderla in tempo. Ma ormai la brutta parola era fuori, e aveva centrato in pieno Mr Simpatia.
Dopo dopo pochi istanti tuttavia, ecco la rivelazione sorprendente. Il guastatore mi supera tutto tronfio e rabbioso e vedo che non è il pischello testa calda che mi figuravo dal comportamento censurabile percepito alle spalle. È un attempato signore! Che per di più mi dice, desideroso di scontro, “come mi hai chiamato, eh?” Non riesco a rispondere per la sorpresa. Ma come, uno che sicuramente ha avuto tutta una vita per imparare un po’ di fair play è qui ancora a pettinare le bambole con questi atteggiamenti. Mi si affianca un ciclista che mi conosce e avvisa: “lascialo perdere, quello lì è un attaccabrighe. È già capitato anche a me, non ne vale la pena”. E un altro: “Lascia stare, è un tipo che fa sempre il di più, ma nel gruppo prende soltanto, non va mai in testa a tirare”.
Un bel quadretto non c’é che dire. Inizio quindi a dispiacermi di meno per la parola sfuggita. Ma il tipo, appena gli ricapito a tiro, insiste: “come mi hai chiamato, eh?”
Buoni o cattivi… non è la fine!
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