È molto più di una bottiglia: è un simbolo di identità territoriale, qualità e trasparenza.
Marina Marcarino, Presidente di Albeisa, ci guida alla scoperta di un progetto nato per valorizzare la Langa attraverso la forma della sua bottiglia storica, oggi adottata da oltre 340 produttori.
In questa intervista esclusiva, racconta l’evoluzione del consorzio, la sua visione personale sul futuro del vino italiano, l’impatto delle nuove tendenze come il “no alcol” e l’importanza di educare il consumatore attraverso esperienze dirette.
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Una conversazione appassionata che parla di vino, di persone e di un territorio che sa ancora emozionare.
Cos’è Albeisa e qual è la sua missione? Albeisa è un consorzio di produttori che condividono l’utilizzo della stessa bottiglia, ma dietro c’è molto di più: una filosofia di qualità, rispetto e valorizzazione del territorio, oltre a un impegno nella comunicazione trasparente verso il consumatore sulle caratteristiche del vino e sul suo processo produttivo.
Come nasce l’idea di Albeisa? L’iniziativa parte da Renato Ratti, che recuperò un’antica bottiglia tipica della Langa utilizzata fino all’Ottocento. La trovò così rappresentativa del territorio da volerla riportare in vita, fondando l’Unione Produttori Vini Albesi insieme ad altri sei produttori. Da subito, oltre all’adozione della bottiglia, si decise di regolamentarne l’uso attraverso un disciplinare: i vini dovevano essere tipici del territorio, con denominazione o indicazione di vitigno specifico, e provenienti da aziende di riconosciuta qualità. Negli anni ’80, con lo scandalo del metanolo, la bottiglia Albeisa divenne un simbolo di affidabilità e trasparenza.
Quanto conta davvero la forma della bottiglia per un vino? Molto spesso la scelta della bottiglia è dettata dal marketing, dall’etichetta, o dallo studio grafico. Invece, scegliere Albeisa significa fare una dichiarazione di identità territoriale. Un produttore storico di La Morra, per esempio, mi ha raccontato di aver adottato la bottiglia Albeisa dopo anni con la bordolese. Oggi è entusiasta: i suoi clienti apprezzano una bottiglia che, da sola, racconta la provenienza del vino. Al mondo, solo due bottiglie rappresentano così fortemente un territorio: la nostra Albeisa e quella di Usho Terukutap. Tutte le altre sono forme generiche poi adattate altrove.
Quanti produttori fanno parte oggi del consorzio? Siamo cresciuti moltissimo. Siamo partiti con sei produttori e oggi siamo oltre i 340. Solo dal 2019 siamo cresciuti di oltre il 30%, e quasi del 50% da quando sono presidente.
Che significato ha per lei ricoprire questa carica? È un incarico che inizialmente ho accettato per senso di responsabilità, in un momento di passaggio interno. Col tempo è diventato un impegno molto importante. È il mio ultimo mandato, l’ho già deciso, ma continuo per completare progetti avviati come la nuova sede e l’avvio di numerose iniziative. Abbiamo cambiato molto: ci siamo aperti verso l’esterno, investito sulla comunicazione, ridotto la dimensione di alcuni eventi come Nebbiolo Prima per renderli più efficaci, e avviato progetti come “Langhe Insolite”. Sono fiera della squadra giovane e affiatata con cui lavoro. E soprattutto del fatto che Albeisa non ha legami politici o interessi personali: è indipendente anche dal punto di vista economico, il che ci permette di restare neutrali e fedeli alla nostra missione.
Come funziona economicamente Albeisa? Quali sono i costi per i produttori? C’è una quota associativa iniziale e poi l’obbligo di continuare ad acquistare bottiglie Albeisa. Se si interrompe l’acquisto per un lungo periodo, l’associazione decade e va rifatta. Le bottiglie vengono prodotte da una vetreria, e su ogni bottiglia il consorzio riceve una royalty. Questa somma serve per finanziare le attività tecniche e promozionali: controllo qualità, supporto legale in caso di problemi legati alla bottiglia, eventi, degustazioni, iniziative editoriali. Tutto questo è gratuito per i soci, e ora che abbiamo una sede, anche chi non ha spazi adeguati può accogliere clienti e gruppi usando le strutture Albeisa.
Esiste un quantitativo minimo da acquistare? Sì, il minimo annuo è circa un pallet di bottiglie. Naturalmente ci sono eccezioni: nel 2017, per esempio, dopo una forte grandinata, molti piccoli produttori non avevano uva. In quei casi, basta comunicarlo e la continuità associativa viene mantenuta.
Come vi state muovendo rispetto alla tendenza “no alcol”? Al momento, con grande onestà, non ci stiamo muovendo. È un tema delicatissimo e mal comunicato: non è una campagna contro l’alcol, ma spesso diventa una campagna contro il vino. È un grave errore strategico, soprattutto in un Paese che produce vino di altissima qualità, non superalcolici. Senza il supporto di dati scientifici e senza il coraggio politico di esporsi, è difficile contrastare questa narrativa. Avevamo pensato a una conferenza su “Il vino fa davvero male?”, ma ci siamo chiesti: quale risposta avremmo ottenuto? In Italia l’informazione è troppo polarizzata.
Ha parlato anche di esperienza personale con suo figlio e i suoi amici. Cosa ha notato nel consumo tra i giovani? Vedo che i ragazzi consumano moltissimi superalcolici. Vino molto meno. A mio figlio ho sempre insegnato a bere vino con consapevolezza fin da piccolo, proprio per evitare che diventasse un tabù. Oggi sa scegliere bene, e lo fa con naturalezza.
Un consiglio per chi non è esperto e si trova davanti a una carta dei vini? Non bisogna farsi condizionare dal prezzo. La bottiglia più costosa non è sempre la migliore, ma nemmeno la più economica lo è: spesso nasconde una qualità molto bassa. Meglio affidarsi al territorio in cui ci si trova: se sei in Toscana, bevi toscano; se sei in Puglia, bevi pugliese. E chiedi consiglio al ristoratore, magari per un produttore artigianale o di piccole dimensioni, che lavora le proprie uve. Inoltre, scegli sempre in base al tuo gusto: non serve inseguire i punteggi delle guide. È meglio leggere come lavora il produttore, per capire se il suo stile è in sintonia con il tuo. Lo stesso vale per i ristoranti: non sempre un piatto stellato è quello che ci emoziona di più. A volte, una tagliarina fatta a mano in trattoria racconta molto di più.
Cosa offre la sede di Albeisa al consumatore finale? Abbiamo pensato la sede anche come spazio di educazione al vino, in senso positivo e inclusivo. Proponiamo degustazioni esperienziali per far conoscere le differenze tra territori, vitigni e denominazioni. Per esempio: come cambia un Barolo prodotto a La Morra rispetto a uno di Serralunga? Oppure: che differenza c’è tra un Dolcetto d’Alba e uno delle Langhe Monregalesi? Aiutiamo il consumatore a riconoscere stili di produzione diversi, a capire cosa gli piace davvero. Le nostre guide sono tutte formate anche tecnicamente: comunicano in modo semplice e diretto, senza mai far sentire nessuno fuori posto.
Dalle parole di Marina Marcarino emerge con chiarezza che Albeisa non è soltanto un marchio o una forma riconoscibile, ma il riflesso autentico di un territorio unico: la Langa. Un luogo dove ogni collina, ogni vigneto, ogni piccolo produttore contribuisce a costruire una narrazione fatta di eccellenza, rispetto e tradizione. La bottiglia Albeisa diventa così un ponte tra passato e futuro, un simbolo tangibile che racconta l’identità profonda di un paesaggio vitivinicolo tra i più affascinanti al mondo. Attraverso le sue iniziative, il consorzio invita non solo a bere consapevolmente, ma a scoprire e vivere il territorio: con il calice in mano e lo sguardo rivolto alle colline delle Langhe.