Non ci vestiamo solo per coprirci, ci vestiamo per raccontarci.

Cosa indossiamo al mattino non è mai una scelta neutra. Dietro un paio di jeans, una giacca strutturata o un completo fluo, si nasconde una rete invisibile di emozioni, condizionamenti sociali e, oggi più che mai, di significati culturali che ci connettono al nostro tempo.

E se pensate che l’armadio è solo un contenitore, dovete ricredervi perché può diventare il migliore brain coach che abbiate mai avuto!

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Abiti che parlano (di noi)

Studi e ricerche hanno dimostrato che l’abbigliamento può influenzare in modo significativo il nostro umore, il comportamento e persino le performance cognitive. Uno dei fenomeni più conosciuti è l’“enclothed cognition”, termine coniato da Hajo Adam e Adam Galinsky, psicologi cognitivi, nel 2012. Il concetto si basa sull’idea che l’abbigliamento possa modificare il modo in cui pensiamo, sentiamo e agiamo, attraverso tre fattori principali:​

  1. Il significato simbolico dell’abbigliamento, le associazioni culturali e personali legate a determinati capi.​
  1. Il valore che diamo a ciò che indossiamo, ossia l’atto concreto di vestire un capo specifico e l’emozione che provoca.
  2. Il valore che gli altri attribuiscono a ciò che indossiamo, ovvero come veniamo percepiti nell’ambiente esterno.

Dopo due esperimenti per capire la valenza di un camice bianco nell’immaginario sociale, hanno fatto un terzo esperimento dividendo degli studenti in due gruppi e facendo indossare a tutti il camicie in questione. Prima di coinvolgerli nello svolgimento di un test sull’attenzione, ad un gruppo è stato detto che il camicie era da dottore e all’altro che era da pittore. Quale gruppo ha performato meglio?

Quello con camicie da dottore, of course. Motivazione? Un dottore salva vite, ha cura degli altri, deve avere una concentrazione maggiore per fare diagnosi. Per questo gli studenti con il camicie da dottore hanno avuto percezione di sé come più responsabili ed hanno attivato una maggiore attenzione!

Ma davvero un capo può avere questo potere? Un abito comodo può ridurre l’ansia, uno elegante può rafforzare l’autostima, un colore acceso può stimolare la vitalità? Ebbene sì.

La moda diventa così una forma di auto-regolazione emotiva e uno strumento di comunicazione non verbale.

 

Power dressing e nuovi codici del potere

Negli anni ’80 il “power dressing” ha reso iconico il tailleur con spalline imbottite: simbolo dell’emancipazione femminile e del desiderio di affermarsi in ambienti professionali dominati da codici maschili.

Oggi, per essere all’altezza non abbiamo bisogno di spalline imbottite ma questo concetto, in qualche modo, si è evoluto. Il potere, infatti, si manifesta anche nella libertà di esprimere la propria vulnerabilità, autenticità e fluidità di genere. I capi “empowering” non sono più solo formali o aggressivi, ma rispecchiano chi siamo davvero — a volte anche in una felpa oversize o in una t-shirt con un messaggio ironico per dire quello che, a volte, rimane dentro.

 

Tendenze e neologismi

Viviamo in un momento storico di grande transizione e la moda non può che assorbirne l’eco. Cambiano le mode e i modi anche di esprimerle. Così, a periodi alterni, vengono coniati nuovi termini che fatichiamo a comprendere.

Nel lessico contemporaneo ne sono apparsi molti come il Phygital Look, ossia la fusione tra fisico e digitale. Con la crescita del metaverso e dei social, il nostro stile si sdoppia: un outfit reale e uno virtuale. Le maison più innovative creano capi NFT (Non- fungible token) e collezioni indossabili nei mondi digitali, dove l’identità si gioca a colpi di pixel e glitch.

C’è poi il Post Human Style che sottolinea una moda rivolta ad un essere umano ibrido, potenziato, tecnologico. Materiali futuristici, forme fluide, accessori mega. Una visione oltre il corpo biologico, dove anche la moda diventa filosofia.

Ma se è vero che un abito può influire sulla percezione di sé allora può avere effetti anche sul benessere e l’umore?

Già, il vostro armadio ha poteri dopanti! Si chiama Dopamine Dressing, vestirsi per stimolare la serotonina. Colori vivaci, pattern audaci, glitter e texture tattili. Una reazione al grigiore pandemico, all’inquinamento, alle guerre: vestirsi per reagire, resistere, rinascere. I colori protagonisti di questo trend da introdurre nell’armadio al più presto per una ventata di felicità sono:

Giallo: energizzante e solare, evoca ottimismo
 Fucsia: vibrante, stimola vitalità e autostima
Arancione: creativo e giocoso, accende entusiasmo
Verde brillante: rinfrescante, porta equilibrio e rinascita
Azzurro acceso: leggero e positivo, dona serenità
Rosso ciliegia: intenso e passionale, potenzia fiducia

Vestirsi di colore non è solo una questione estetica ma un atto di self-love e un modo per influenzare positivamente la propria energia quotidiana.

Moda come specchio della contemporaneità

Ogni epoca ha il suo linguaggio estetico. Il corsetto raccontava la disciplina del corpo ottocentesco, il flapper dress parlava di emancipazione femminile negli anni ’20, il denim industriale degli anni ’50 rifletteva la working class americana con l’emancipazione della Tuta che, da abbigliamento da lavoro, è divenuta simbolo di una donna audace e senza tabù.

Oggi, le nostre scelte di stile sono attraversate dalla crisi climatica, dalle rivoluzioni digitali, dalla ricerca spirituale e dal desiderio di riconnessione. Risultato? Armadi molto confusi!

Perché la moda non è mai solo decorazione. È una lente per leggere il presente. È anche ricerca, scientifica e sociale, che ci piaccia o no, tra nuovi materiali sostenibili, algoritmi che suggeriscono outfit personalizzati, e laboratori che fondono biotecnologia e design.

Marchi come The Fabricant (thefabricant.com) vendono solo abiti da “indossare” sui social o nei videogame, dove l’identità si costruisce a colpi di avatar. Nato ad Amsterdam nel 2018, è una delle realtà più visionarie del fashion tech. A differenza delle case di moda tradizionali, The Fabricant non produce capi fisici, ma solo abiti digitali, pensati per essere indossati online in mondi virtuali! Nel 2019 ha venduto il suo primo abito digitale, chiamato “Iridescence”, per 9.500 dollari. L’acquirente? Un collezionista d’arte digitale che voleva regalarlo alla moglie. Il vestito non è mai entrato nel suo armadio perché non è mai stato cucito ma vive in uno scatto elaborato in CGI, un’immagine tridimensionale!

 Anche il nostro armadio diventerà virtuale?

Certo è che l’abito cambia con la società: nuove epoche, nuovi input per guardaroba à la page.

Dall’abito identitario, simbolo di appartenenza sociale, economica e religiosa siamo passati  all’abito espressivo, slogan delle nostre emozioni e dei nostri credo. Non è più “chi sei” a determinare cosa indossi, ma “come vuoi sentirti” oggi.

Ecco perché, inconsapevolmente, siamo stati traghettati dall’abito statico al cosiddetto abito adattivo perché grazie alla tecnologia, non è più solo qualcosa che “si indossa”, ma qualcosa che interagisce con il corpo e con l’ambiente. Pensate ai tessuti intelligenti che reagiscono alla temperatura o al sudore, agli abiti con sensori biometrici integrati, usati nello sport o nella medicina o agli accessori che si ricaricano con l’energia solare o che cambiano colore con la luce!

Il futuro dell’abbigliamento è funzionale ed empatico, pensato per adattarsi alle nostre esigenze in tempo reale.

Ma cosa ci racconta davvero un abito di chi lo indossa, oltre l’apparenza?

L’ho chiesto a Ida Galati, fashion teller, autrice del libro “Il linguaggio segreto della moda”.

Quando parlo di “linguaggio segreto” della moda, intendo tutto quello che comunichiamo attraverso i vestiti, spesso senza rendercene conto. Un abito non dice solo se abbiamo gusto o meno, ma può raccontare come ci sentiamo, che ruolo vogliamo ricoprire, quanto desideriamo essere notati o, al contrario, mimetizzati. La moda è un codice, e ogni scelta – anche apparentemente casuale – parla di identità, appartenenza, ribellione, desideri.
Vestirsi non è mai un gesto neutro: è un modo per dire “ecco come voglio essere percepita oggi”. Un abito può raccontare una battaglia vinta o una che ancora combattiamo.
Può gridare indipendenza, oppure chiedere abbraccio. Può nascondere il corpo, certo, ma anche proteggerlo, oppure esibirlo come si fa con un trofeo: guarda fin dove sono arrivata.
Anche il modo in cui indossiamo un capo – se lo stringiamo in vita, se lo lasciamo aperto, se lo abbottoniamo fino all’ultimo bottone – racconta qualcosa.
Insomma: i vestiti parlano. Dicono chi siamo prima ancora che apriamo bocca, svelano ciò che magari non sappiamo nemmeno di voler dire, arrivando ad essere a volte più sinceri delle parole. Per questo saperli ascoltare, su di sé e sugli altri, è uno strumento potente per capire cosa ci muove davvero”.

ida galati libro

Quanto il nostro modo di vestirci è influenzato da emozioni inconsce o da bisogni profondi che non sempre riconosciamo?

Molto più di quanto pensiamo. Il modo in cui ci vestiamo è spesso guidato da emozioni e bisogni profondi che agiscono sotto la soglia della consapevolezza. Non è solo una questione di “cosa mi sta bene” o “cosa va di moda”, ma di cosa ci serve sentire — o far sentire — in quel momento. Ci vestiamo per proteggerci, per affermarci, per essere visti o per confonderci nella folla. E lo facciamo spesso in automatico. Un esempio? Ci sono giorni in cui scegliamo abiti oversize non perché ci piacciono di più, ma perché abbiamo bisogno di sparire un po’. Oppure ci mettiamo qualcosa di appariscente non perché siamo davvero sicure di noi, ma perché vogliamo sentirci tali. La moda, in questo senso, è come uno specchio che riflette parti di noi che non sempre sappiamo nominare. E quando iniziamo a leggere quei segnali, il guardaroba diventa una vera mappa emotiva: ci racconta ansie, desideri, trasformazioni interiori”.

Il nostro armadio diventa quindi un contenitore terapeutico! Secondo te, Ida, possiamo davvero usare l’abito come strumento di benessere?

Assolutamente sì. L’abito può diventare uno strumento di benessere quotidiano, a patto di smettere di usarlo solo per “piacere agli altri” e iniziare a chiederci davvero: “Come voglio sentirmi oggi?”. Scegliere cosa indossare con consapevolezza può aiutarci a regolare l’umore, a gestire l’ansia, a rafforzare l’autostima. Indossare un capo che sentiamo nostro, che ci rappresenta, ci fa sentire più presenti, più allineati, più forti. Non si tratta di vestirsi bene per forza, ma di vestirsi “in accordo” con il proprio stato d’animo — o con quello a cui aspiriamo.
Il punto è: se ci ascoltiamo davvero, l’armadio può diventare una cassetta degli attrezzi emotiva. E usarlo in questo modo, ogni mattina, è un piccolo ma potente atto di cura“.

Come cambia il linguaggio di un abito oggi, in una società sempre più fluida, digitale e veloce?

Oggi il linguaggio di un abito è diventato più complesso, più stratificato — e anche più contraddittorio. Viviamo in una società iperconnessa in cui l’identità non è più fissa ma in continuo movimento. E la moda rispecchia perfettamente questa instabilità.
Un tempo l’abito comunicava appartenenza sociale, ruolo, genere, status. Oggi può dire tutto e il contrario di tutto. Una ragazza può indossare un completo maschile oversize e non per questo voler rinnegare la sua femminilità, ma esplorarla in un modo nuovo. Un giovane può mescolare capi firmati e vintage da mercatino, non per confusione, ma per costruire una narrazione personale. In più, il digitale ha accelerato i codici: i trend si consumano in settimane, l’immagine ha sostituito spesso il significato. Eppure, proprio in questa rapidità, l’abito resta un’àncora visiva: una dichiarazione istantanea di chi vogliamo essere, anche solo per quel giorno.
Il linguaggio dell’abito oggi non è più una lingua con regole fisse, ma un dialetto personale. E imparare a parlarla — con onestà e libertà — è una forma di resistenza alla standardizzazione. Un modo per dire: io sono questo, qui e ora. Domani, forse, sarò altro”.

Come racconti nel libro, hai vissuto in più città e in ognuna il tuo stile ha avuto dei cambiamenti. In quale di quelle città ti sei sentita “nei tuoi panni”?

A Londra perché non c’era nessun condizionamento e potevo uscire indossando una corona di fiori quotidianamente senza sentirmi strana, sbagliata o strampalata.
Mi sono sentita libera di esprimermi, di esplorare, di cercarmi e trovarmi. Credo non si ci sia regalo più grande che imbattersi in qualcuno o qualcosa -in questo caso un luogo- che ti trasmette il messaggio che puoi essere chi vuoi e nessuno avrà da ridire. Come dovrebbe fare un genitore prima e la società dopo”.

Tranne alcune, le icone che rappresentano i vari stili illustrati nel tuo libro appartengono all’epoca contemporanea. Come le hai scelte?

Le ho scelte partendo da una domanda semplice, ma rivelatrice: chi incarna oggi un modo di vestire che non è solo estetico, ma espressivo? Volevo figure che fossero specchio del nostro tempo, in cui lo stile non è solo “bello da vedere”, ma dice qualcosa di più profondo: un’identità, una visione, a volte anche una contraddizione. Ho scelto icone contemporanee proprio perché parlano lo stesso linguaggio delle persone che leggeranno il libro. Non sono modelle irraggiungibili o muse patinate, ma persone reali -anche quando sono celebri- che usano la moda come mezzo di comunicazione autentico. Il punto non era creare un’enciclopedia di stile, ma offrire dei riferimenti che potessero aiutare chi legge a rivedersi, a riconoscersi o anche a dire: no, io sono tutta un’altra cosa”.

ida galati libro

C’è un consiglio che daresti a chi sente di non avere uno stile “definito” o teme di sbagliare?

Lo stile non è una formula da indovinare, né un’etichetta da appiccicarsi addosso. È un processo, un percorso, qualcosa che si costruisce con il tempo — e soprattutto con l’ascolto.
Se senti di non avere uno stile “definito”, forse è perché ti stai ancora esplorando. E va bene così. Non è un fallimento, è una fase. “Sbagliare un look” o scoprire di non sentirsi a proprio agio in alcuni panni è un modo per capirsi meglio: quel colore non mi fa sentire a mio agio, quel taglio non sono io. Ogni scelta sbagliata ti avvicina a quella giusta.
Il consiglio più concreto che posso dare è: osservati. Non tanto nello specchio, ma nella vita. In quali abiti ti senti bene? In quali ti muovi con più libertà, con più sicurezza?
Lo stile non è definito. È definibile. E sei tu a scriverne ogni giorno un pezzo nuovo”.

“Basta paura, basta pregiudizi: i tempi cambiano” – questo il titolo di un capitolo. Ma cosa significa per te “vestirsi consapevolmente” oggi?

Per me “vestirsi consapevolmente” oggi significa scegliere cosa indossare non per adeguarsi, ma per esprimersi. Consapevolezza, in questo contesto, non è sinonimo di perfezione, né di coerenza estetica. È un atto di presenza. È riconoscere che ogni mattina, quando apriamo l’armadio, compiamo una micro-scelta che ha a che fare con identità, emozioni, sostenibilità e libertà. Significa anche guardare con più attenzione da dove vengono i vestiti che indossiamo, come sono stati prodotti, a quale modello di consumo stiamo partecipando. La moda non è mai solo una questione personale: è anche un fatto culturale, sociale, ambientale. “Basta paura, basta pregiudizi” vuol dire anche questo: lasciar andare le regole imposte dagli altri, i giudizi su cosa “dovremmo” indossare a una certa età, con un certo corpo, in una certa occasione. Vestirsi consapevolmente è dare voce al proprio corpo e alla propria storia, senza più chiedere il permesso”.

Quindi, non c’è dubbio: in un mondo dove tutto cambia rapidamente, vestirsi diventa un modo per restare ancorati o per spiccare il volo. E se ti rifugi sempre nei soliti jeans e maglione nero, tranquilla: anche Freud avrebbe avuto i suoi look “copertina di Linus”.
L’importante è sapere che ogni mattina, aprendo l’armadio, abbiamo la possibilità di scegliere un pezzetto della nostra identità o, almeno, di cambiare umore senza bisogno di terapia di gruppo!
Che sia un maglione che ti fa sentire invincibile o un vestito che ti abbraccia meglio di un ex, ricordati: non stai solo vestendo il corpo. Stai parlando al mondo.

E, se vuoi, anche un po’ a te stessa!